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Esperienza vs. Parole
Processo spontaneo o indirizzato

L’esperienza è il solo insegnante in cui possiamo confidare

Leonardo Da Vinci

 

Ho scelto di accompagnare le persone usando un approccio psicoterapico esperienziale, perché dopo 10 anni passati a parlare, mi sono resa conto che la parola non sempre arriva a toccare il nocciolo della questione: magari mi aiuta a capire perché ho un problema e da dove è nato, ma non riesce sempre ad aiutarmi a scioglierlo.

Le parole senza l’esperienza sono insufficienti a cambiare un copione, perché l’essere umano apprende dall’esperienza.

La relazione terapeutica stessa, quando è autentica e sentita anche dal terapeuta, può incarnare una nuova esperienza, che rompe circoli viziosi che si ripetono da anni. Quando questo accade il rapporto terapeutico va oltre le semplici parole, che vengono dette, e ripara mancanze avvenute in relazioni passate. Ma c’è poi , comunque, uno step successivo da fare, relativo al portare fuori, nella vita esterna alla terapia, questa riparazione, con le nuove competenze relazionali che ha liberato.

 

Le terapie corporee lavorano ricreando contesti esperienziali, che consentano alla persona di conoscere e dialogare con la memoria corporea. Questa precede la cognitiva e raccoglie le esperienze precedenti alla completa strutturazione del sistema nervoso (quelle che abbiamo vissuto prima dei 6 anni).

Il potenziale di questi approcci è enorme, perché creano un canale d’accesso diretto alla prima infanzia, ma come tutti gli strumenti potenti, non vanno usati impropriamente.

L’esperienza senza le parole che la integrano, può essere catartica sul momento, ma ritraumatizzante nel lungo periodo. Proprio per la loro capacità di andare al “nocciolo”, i lavori esperienziali, vanno usati con delicatezza e rispetto del ritmo di ogni singola persona e necessitano sempre e comunque di un’integrazione verbale.

Quando l ’apertura viene forzata, muovendo verso una catarsi o uno sblocco psicofisico, porta all’irrigidimento delle nostre difese e al mantenimento dei copioni. Lavorare per prendere a picconate le difese non è mai una buona strategia!

 

Il crollo delle difese dell’ego non è un traguardo legittimo per la terapia. Queste difese vanno rispettate a meno che non sia possibile aiutare il paziente a sviluppare un metodo più efficace nell’affrontare lo stress della vita. Quest’azione distruttiva è valida unicamente se conduce ad un superamento che includa lo sviluppo di una comprensione ed integrazione del nuovo sentimento nella personalità

Alexander Lowen

 

Un movimento delicato e graduale di apertura e chiusura alimenta invece il processo, che ammorbidisce le nostre difese e ci restituisce grazia e padronanza, dandoci il tempo e lo spazio di integrare con la comprensione cognitiva. In questo modo si mettono in dialogo il bambino ferito e l’adulto che siamo oggi, le parti vengono integrate e non rifiutate.

 

Ne sono esempi la persona che lavora in modo intenso e profondo in una seduta e la successiva rimane in superficie. È sbagliato? Va forzata a tornare sul punto dolente? No! Il movimento spontaneo va assecondato quando emerge e non forzato quando non viene. All’apertura segue sempre una chiusura: la salute sta nella flessibilità e nel reciproco alternarsi di questi due movimenti.

 

Prendiamo anche un esempio esterno alla terapia e più comprensibile ai non addetti ai lavori: un ragazzino che si apre con l’insegnante e consente il contatto, si fa aiutare su quella che è la sua difficoltà e poi il giorno dopo chiude e torna ad essere incontattabile. Dovremmo forzarlo? Ci ha preso in giro? No, segue il naturale movimento di apertura e chiusura, che se rispettato, lo porterà a riaprire nuovamente, una volta digerita la novità.

 

Concludendo, per quanto concerne la mia esperienza per un buon lavoro psicoterapico, sono dell’avviso che l’esperienza e l’integrazione verbale siano necessarie l’una all’altra, all’interno di un processo che segua il più possibile la spontaneità del movimento.

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