ragnatela

Essere Speciali vs Fare Gruppo
L’abbondanza che nasce dal tessere la tela

Abbiamo bisogno di sentirci speciali, ma nessuno di noi lo è davvero, perché siamo tutti sostituibili e prendere atto di questa realtà non leva valore a ciò che siamo e a ciò che facciamo.

Quando accompagno il mio paziente a stare meglio il mio movimento verso di lui ha valore, è qualcosa che ci lega, che ha un effetto importante sulla sua vita e sulla mia, ma il mio paziente potrebbe farlo anche nella relazione con un altro terapeuta, naturalmente non uno qualunque, uno adatto a lui. La realtà è che io non sono speciale, ma sostituibile.

Quando riusciamo ad accettare che le cose stanno così alleggeriamo l’esistenza dal peso del dover vivere schiacciati dal rincorrere la performance e, paradossalmente, senza quel carico arrivano risultati più duraturi, che nascono dall’aver sviluppato la capacità di rete tra gli individui.

Mi chiedo spesso come potrebbe essere uscire dal paradigma della competitività, che ci porta a sforzarci di essere “speciali” per entrare in un paradigma che sia centrato sul processo e che veda il singolo come funzionale al gruppo, come una delle parti: importante, preziosa, ma sostituibile.

Se smettessimo di cercare di essere eccezionali affannandoci a fare  tanto e ci concentrassimo maggiormente su ciò che ci rende “come gli altri”, “uguali” (ovviamente non nel senso dell’omologazione) forse riusciremmo ad avviare un potente processo di cambiamento della società passando dall’imporre un unico modo al co-costruire nuove modalità, che cambiano continuamente all’ingresso di nuovi elementi, in un processo evolutivo continuo che nasce dal mettere, di ognuno, il proprio pezzettino perché l’ingranaggio funzioni.

Pensiamo al potere rivoluzionario che potrebbe avere una scuola centrata sullo sviluppare nei cittadini di domani collaborazione e attenzione al modo in cui si fanno le cose, invece di supportare competitività e performance!

Il nostro contesto sociale non ci insegna a chiedere aiuto, né a darlo gratuitamente, non sappiamo lavorare in squadra!

Come potrebbe cambiare il nostro mondo se rinforzassimo l’impulso, che da piccoli si manifesta spostaneamente, a chiedere e a sostenere? Ci alleggeriremmo tutti della spinta verso la prestazione e stare in relazione con gli altri diventerebbe più comodo e vivibile.

La biologia ci offre un’immagine molto chiara che possiamo prendere come riferimento simbolico: la cellula. Le cellule lavorano in squadra, sono interdipendenti, si modificano e assorbono i cambiamenti. Quando questa cosa non funziona? Quando ci sono cellule che iperproliferano assorbendo energia e spazio… quelle troppo centrate su se stesse!

 

La solitudine sta dilagando e sempre di più arrivano in psicoterapia persone che manifestano questo stato d’animo, anche quando hanno altri, che sembrerebbero essergli vicini.

Come è possibile sentirsi soli anche in mezzo a tanti, soli nel mondo in cui la connessione rende possibile l’annullamento delle distanze?

Al di là delle ragioni personali, connesse alla storia dei singoli, c’è a mio avviso una base sociale comune.

Siamo cresciuti, fin dai primissimi anni, con un’educazione volta a farci sentire isolati: se pensiamo all’impostazione del nostro sistema scolastico, quindi non all’approccio dei singoli insegnanti, osserviamo come tutto punti sul raggiungimento di risultati individuali. La cultura del fare gruppo è assente.

Il docente è tendenzialmente vissuto come un valutatore, il compagno è  un competitore.  Gli stessi insegnanti tra loro non sono formati a fare gruppo, ma sono portati a gestire in maniera individuale la propria materia, non potendo dunque passare con l’esempio, l’unico vero strumento educativo che potrebbe cambiare il nostro mondo: le basi del come si fa a fare gruppo.

Manca perciò un apprendimento di come si costruiscano alleanze paritarie,  manca la volontà politica di insegnare a fare rete, di mostrare come cercare apertamente e offirre un sostegno basato sulla reciprocità.

Ci viene insegnato fin dalla primissima età a competere e inevitabilmente si sviluppano scenari in cui i ragazzini non si sostengono neppure tra loro e così pure per gli insegnanti che vivono spesso nel timore della valutazione dei colleghi di plesso e spesso di quelli della scuola di grado successivo, per non parlare  poi dei genitori, dietro a confronti tra i figli e etichette appioppate senza avere il quadro della situazione (non possono averlo perché non sono in classe).

Credo fermamente che la cura per questo stato di solitudine collettiva ci sia: mettersi nelle condizioni di imparare a lavorare in squadra, costruendo piccole reti, come quelle del ragno, che ha abbondanza proprio perché tesse la rete….

 

 

 

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