La pandemia e le misure di contenimento adottate per contenerla ci hanno messo in contatto con le nostre fragilità, sia come singoli che come società. Le difficoltà sono state primariamente legate alla salute, fisica e psichica, alla vita relazionale e alla sopravvivenza economica. A prescindere da quale sia stato l’aspetto che ci ha colpito maggiormente, la sopravvivenza è stato l’elemento comune a tutti.
Questa base comune ha creato un terreno fertile, sia personale che collettivo: questo sarebbe il momento ideale per piantare semi di cambiamento.
Abbiamo l’occasione di supportare un percorso di passaggio:
- da una modalità prevalentemente orientata all‘individualismo, dove le relazioni sono percepite come luogo di scontro, dove si viene giudicati ed etichettati;
- ad un’ottica più centrata sulla collaborazione, intesa come co-costruzione.
Possiamo provare a vedere le relazioni come l’occasione per creare insieme, per imparare e costruire, invece di vederle come una gara a chi è più forte, più capace, più bello o intelligente? Possiamo provare a muoverci verso il mondo in un’ottica di incontro invece che in quella dello scontro?
Come?
Provando ad entrare nell’ordine di idee che quando siamo troppo sicuri di essere nel giusto, forse ci siamo seduti su una posizione rigida, forse non cogliamo la realtà dell’Altro esterno a noi.
Provando a considerare l’idealizzazione di comportamenti, di persone o di posizioni etiche come una forma di rigidità che impedisce il dialogo e l’ascolto delle dimensioni altre.
Se ci addentriamo su questa strada mettiamo le basi per un cambiamento del clima, individuale e sociale.
Lo scontro comporta tensione e attivazione simpatica, si attiva il funzionamento cerebrale legato alla difesa, che attiva a sua volta paura e chiusura o agiti aggressivi; se andiamo a sollecitare la collaborazione, si attiva un funzionamento vago ventrale, che ci consente di gestire in modo equilibrato tutte le emozioni.
La strategia di risoluzione dei nostri guai ad ogni livello: politico, lavorativo, scolastico, familiare, sta nel lavorare per creare gruppi capaci di collaborare al loro interno e con gli altri gruppi.
Immaginiamo cosa potrebbe accadere se riuscissimo ad investire in questa direzione, nei due ambienti dove si formano i cittadini del futuro: la famiglia e la scuola.
Se ci fosse un impegno politico a formare alla collaborazione invece di rimanere focalizzati sempre sullo scontro e sul giudizio, contribuiremmo a far crescere persone più stabili e orientate nella realtà, perché quando nel nostro sistema nervoso si attiva il sistema collaborativo abbiamo un funzionamento ottimale, centrato ed equilibrato. Questo significa che avremmo una società futura fatta di persone capaci di far fronte alle difficoltà in modo creativo, senza gravi scompensi psicofisici. Anche le occasioni di lite e conflitto, se il sistema è improntato alla collaborazione saranno gestite “litigando bene”!
Perché non vorrei passare il messaggio che siano da eliminarsi gli scontri, che costituiscono invece occasione di crescita. L’evoluzione, però, avviene quando siamo in grado di stare nel litigio mantenendo il funzionamento vagoventrale del sistema nervoso, cioè quando riusciamo a litigare avendo consapevolezza delle nostre emozioni e riuscendo a regolarle efficacemente.
Perché seminare collaborazione?
- Il sistema nervoso attiva il sistema vagoventrale, che mi consente di gestire con equilibrio tutte le emozioni
- Facendo insieme scopriamo in quanti modi diversi si può fare la stessa cosa e allarghiamo la visuale di tutti i partecipanti, mettendo le basi per lo sviluppo della capacità critica… il mondo non è tutto bianco o nero!
- Imparando a giocare con gli errori, mostrandoli senza paura o vergogna (emozioni che emergono se siamo in un contesto giudicante e competitivo), apprendiamo più velocemente e impariamo ad usare l’errore come spunto evolutivo.
- Cercando gli altri quando sbagliamo, per avere sostegno con naturalezza e senza vergogna, creiamo un supporto incoraggiante e non soffocante.
- Per imparare a litigare bene!
Immagine tratta da un’opera di Manuela Caricasole.