Ognuno di noi ha delle storie che si racconta su se stesso, profondamente radicate in una ripetitiva esperienza, lontana del tempo. Sono come orme che ripercorriamo continuamente e fondano il modo in cui pensiamo a noi stessi, influenzano ciò che sentiamo e la nostra relazione con gli altri.
non sono capace, non sono all’altezza
sono brutto, nessuno mi guarda
non ho diritto di esistere
devo essere un bravo bambino
sono responsabile degli altri
Abbiamo bisogno di fare esperienza del fatto che queste storie non sono più radicate nella nostra realtà di oggi (come lo erano quando sono nate), ma sono solo parole, che noi raccontiamo a noi stessi e che hanno trovato dimora anche nel corpo, lo hanno irrigidito come il ghiaccio fa con le foglie di una pianta, quando la temperatura scende e l’acqua gela. È fondamentale, per sentirci vitali, riscoprire che possiamo esplorare il sentiero verso la dimensione polare alla nostra storia, rendendoci coscienti di quanta complessità in più si celi dietro alla maschera che queste storie ci fanno assumere:
non sono capace, non sono all’altezza vs. sono il migliore
(continuando il nostro gioco coi supereroi, viene perfetto pensare a Capitan America, che parte fragile e viene escluso, per ritrovarsi quello su cui tutti contano)
sono brutto, nessuno mi guarda vs. sono bello, tutti mi guardano
(Ironman non visto dal padre, passa la vita a cercare di ottenere approvazione dagli altri, cerca il contatto e contemporaneamente quando potrebbe averlo se ne allontana)
non ho diritto di esistere vs. sono al centro dell’Universo
(Loki abbandonato dal padre biologico prima, e poi da quello adottivo, cerca disperatamente di tornare a essere centrale per gli altri)
devo essere un bravo bambino vs. sono molto cattivo
(torna l’uomo timido e corretto, che esplode in Hulk quando non resiste più nelle spoglie del bravo bambino)
sono responsabile degli altri vs. sono libero
(Thor ha il carico dell’eredità regale da cui scappa periodicamente, finché non riesce ad abbandonare le sue catene dorate)
Spesso queste storie rimangono indiscutibili dentro di noi, anche quando la realtà le disconferma continuamente, perché la realtà sfugge spesso alla nostra lettura soggettiva:
Mi ripeto che non sono capace, non sono all’altezza. Ho un coniuge che si arrabbia con me e mette energia per cercare di comunicare, dandomi in questo modo valore, proprio perché continua a cercare il dialogo. Non cerco il dialogo con qualcuno che reputo non all’altezza! Ma, ahimè, io leggo i suoi tentativi come una disconferma e un rifiuto, un “non vado bene”!
Ho riscontri lavorativi da colleghi che mi mostrano apprezzamento, conferme di insegnanti che valutano positivamente gli interventi che faccio con i miei figli, amicizie nelle quali lascio cadere la maschera, mostrando le mie fragilità, ma continuo a concentrarmi su ciò che manca, su ciò che mi rende imperfetto.
Nonostante i riscontri della realtà esterna, continuo a sentirmi incapace, non all’altezza.
È molto frequente vedere la parte giudicante che è in noi proiettandola sull’Altro (coniuge, collega, insegnante, figlio, amico) e così ci sentiamo costantemente giudicati dagli altri. E questo non fa altro che confermare la nostra storia, perché non ci accorgiamo che siamo noi a giudicarci (Thor ne è un ottimo esempio)! O anche ci muoviamo nelle relazioni dimenticandoci che l’altro è Altro da me e lo pensiamo come se fosse uno specchio: mi avvicino con entusiasmo e desiderio e sento l’Altro tirarsi indietro (pensiamo a Ironmen con la fidanzata).
Automatico arriva il pensiero: “non mi vuole”. Ma, l’Altro magari ha tempi e distanze di avvicinamento più ampie delle mie e percepisce il mio entusiasmo come un’invasione incomprensibile per lui, si spaventa!
Per cui non capiamo le reazioni degli altri ai nostri comportamenti, prendiamo la paura per rifiuto ad esempio, perché noi viviamo diversamente lo stesso comportamento e torniamo a confermare la nostra storia di partenza.