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Il cibo come nutrimento affettivo
Conclusioni

Nella prima parte dell’articolo abbiamo esplorato come il modo di vivere il preparare, l’offrire e il condividere il cibo possa essere rappresentativo dei modelli relazionali dei genitori.

Nella seconda puntata siamo entrati nel merito con esempi di ricatto emotivo e negazione del sentire, continuando nella terza con l’inganno, come strumento per ottenere i propri scopi, e i premi vs.le punizioni.

 

A fronte di questi esempi, osserviamo come la comunicazione tra genitori e figli, anche a tavola, sia ricca di doppi messaggi, che il genitore passa senza rendersene conto.

Anche se fosse possibile redigere un manuale delle frasi da dire e di quelle da non dire, non servirebbe, perché nella relazione con i nostri figli, ci muoviamo sempre con quella che è la nostra modalità relazionale, che abbiamo appreso a nostra volta nel rapporto con i nostri genitori. Dunque, il tono e la gestualità della comunicazione passano un messaggio che va oltre le parole che stiamo dicendo e che non può essere nascosto.

 

Per nutrire concretamente ed affettivamente i nostri bambini,  diventa comprensibile come la migliore possibilità che abbiamo sia quella di lavorare per essere consapevoli di cosa ci spinga ad agire in una specifica direzione.

 

Il modo in cui ognuno di noi è stato nutrito fisicamente ed affettivamente, il nostro avere o meno accettato quel nutrimento e il nostro esserci protesi o meno per prenderlo, hanno costruito la nostra struttura di personalità, ovvero il nostro modo di entrare in contatto con noi stessi e con il mondo esterno.

Se non lavoriamo per risolvere i nostri problemi personali, li manifesteremo in ogni ambito relazionale, inclusa l’alimentazione, trasmettendoli inconsapevolmente ai nostri figli.

 

Ma ora torniamo alla comunicazione a tavola, proviamo a giocare con le frasi dei post precedenti. Immaginiamo come reagiremmo se le dicessero a noi quelle parole e proviamo a trasformare le frasi, partendo dall’esperienza di come ci sentiamo quando qualcuno cerca di convincerci a fare qualcosa che non ci sentiamo di fare o nega l’espressione di ciò che stiamo sentendo:

 

“Mangia tutta la pappa, così la mamma ti vuole bene!”, può diventare: “Vieni a pranzo dai miei, così mi fai felice!”

“Non ti piace? Ma cosa dici! È buonissimo!” , può diventare: “Non ti piace? È un peccato darti da mangiare!”

Se mangi la pappa ti faccio vedere i cartoni.” …

Se non mangi quello che hai nel piatto vai a letto senza cena!” … 

Non c’è il pesce nel sugo, stai tranquillo, è solo sugo rosso!” … 

Se mangi gli spinaci diventerai fortissimo!” … “

 

Se riusciamo per un attimo a metterci dall’altra parte, o se ci immaginiamo nei panni del bambino che siamo stati emergeranno delle emozioni. Noi ne prenderemo in considerazione una in particolare, che può essere visibile o nascosta, ma che è sempre presente in questo tipo di situazioni: la rabbia.

 

La rabbia è lo sfondo principale che si sviluppa quando qualcuno ci impedisce nel movimento e nella realizzazione della nostra volontà. E la rabbia, è appunto, l’emozione che i bambini esprimono generalmente nelle situazioni tipiche sopra riportate.

Lungi dall’essere un’emozione negativa, come culturalmente siamo portati a pensarla, è lo strumento emotivo che consente alla persona di trovare l’energia per perseguire i propri scopi e, dunque, la base emotiva per potergli consentire di sviluppare il senso e la padronanza di Sé, comunemente noti come “autostima”.

 

Questa riflessione ci può consentire di leggere in una chiave positiva gli atteggiamenti irritanti e fastidiosi che i nostri bambini sviluppano nella relazione con noi e ci consente di cogliere come la sfida e la lotta con i genitori serva loro a confrontarsi con la realtà esterna per poter fare esperienza di Sé e della definizione dei propri confini.

 

Quanto detto non vuole incentivare i genitori a non mettere limiti, anzi, vuol mostrare proprio l’importanza di questo “ingrato” e faticoso compito nella strutturazione della personalità dei loro bambini!

Se al limite, che mettiamo al figlio, riusciamo a coniugare un atteggiamento consapevole di noi stessi, di ciò che come genitori proviamo in quel momento, avremo la possibilità di sgridare il bambino per scelta e non per reazione (con questo termine intendo quando ci saltano i nervi ed esplodiamo!).

 

Soffermandoci per pochi secondi su ciò che proviamo come genitori, sull’emozione e la sensazione fisica che l’agire del bambino suscita in noi in quel momento, possiamo prenderci un breve spazio riflessivo sufficiente a stoppare una reazione immediata, per arrivare così a scegliere il nostro comportamento.

 

Mi fermo, respiro e osservo la mia rabbia che cresce, il viso che prende calore, le mani che prudono.

 

Il solo atto di osservarmi inserisce già un freno alla rabbia, la limita e mi consente di agire col bambino dandogli un esempio di contenimento.

Abbiamo già, con questo breve atto di pausa, le basi per poter passare il messaggio implicito del limite come strumento di tutela di Sé e dell’Altro.

Quando reagiamo esplodiamo in preda all’emozione e la nostra reazione è isterica e simile a quella del bambino (non a caso la sua modalità riattiva aspetti irrisolti che abbiamo con i nostri genitori).

Quando ci fermiamo prima di agire, con fermezza e con amore, riusciamo invece a contenere l’azione del bambino e il bambino stesso.

 

Ed è questo ciò che vorrei che rimanesse: la fermezza, espressione della padronanza di Sé, non è disgiunta dall’amore, anzi l’una non può esserci senza l’altra. È la base dell’autorevolezza e non richiede ricatti, manipolazioni, né premi o punizioni. La costruiamo giorno dopo giorno, nella comunicazione con i nostri figli, mantenendo un atteggiamento fermo e coerente. Se in generale abbiamo questa costanza, anche gli inevitabili inciampi in comunicazioni inadeguate, vengono presto recuperati.

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